Giurisprudenza codice della strada e circolazione stradale
Sezione curata da Palumbo Salvatore e Molteni Claudio

Cassazione Civile, Sezione prima, sentenza n. 23073 del 11 novembre 2016

 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, sentenza numero 23073 del 11/11/2016
Circolazione Stradale - Artt. 23 e 211 del Codice della Strada - Pubblicità vietata sugli immobili - Area privata o pubblica - Procedibilità dell'iter di rimozione - Distinzione - La rimozione di cartelloni o altri mezzi pubblicitari non consentiti da parte degli enti proprietari delle strade o del concessionario segue due differenti procedure, a seconda se l'area su cui i manufatti sono collocati siano di proprietà privata (previa diffida, procede alla sua esportazione) o pubblica, demaniale o rientrante nel patrimonio dei proprietari delle strade (rimozione senza indugio del manufatto), anche con differenti procedure per il recupero delle spese.


FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 10 gennaio 2003, la (Soggetto 1) s.r.l. proponeva opposizione, dinanzi al Tribunale di (Omissis), avverso l'ordinanza ingiunzione del 28 dicembre 2002, emessa dal Prefetto di (Omissis) per il pagamento delle spese, quantificate in Euro 4.587,82, sostenute per la rimozione di quattro cartelloni pubblicitari di proprietà della (Soggetto 1) s.r.l., operata dal Comune di (Omissis) per essere stati tali impianti installati su suolo comunale senza autorizzazione alcuna. Il Tribunale adito rigettava l'opposizione con sentenza n. 11297/2005.

2. Avverso tale decisione proponeva appello la (Soggetto 1) s.r.l. che veniva, a sua volta, rigettato dalla Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 2810/2010, depositata il 28 giugno 2010, con la quale il giudice del gravame riteneva l'ordinanza ingiunzione immune dai vizi formali denunciati dall'opponente e fondata la pretesa azionata con il provvedimento impugnato, ai sensi del disposto del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 13 quater.

3. Per la cassazione di tale decisione ha proposto, quindi, ricorso la (Soggetto 1) s.r.l. nei confronti del Comune di (Omissis) e dell'Ufficio Territoriale del Governo di (Omissis), affidato a nove motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

4. I resistenti hanno replicato con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, la (Soggetto 1) s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 285 del 1992, artt. 23 e 211 nonché l'omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis).

1.1. La società ricorrente si duole del fatto che la Corte di Appello abbia ritenuto - peraltro con motivazione del tutto incongrua - la legittimità della sanzione accessoria irrogata dal Prefetto con l'ordinanza ingiunzione del 28 dicembre 2002, avente ad oggetto il pagamento delle spese sostenute per la rimozione di quattro cartelloni pubblicitari di proprietà della (Soggetto 1) s.r.l., per il fatto che la società non aveva fornito la prova che tali impianti erano stati installati su suolo comunale con la necessaria autorizzazione. Sostiene l'istante che l'oggetto del giudizio de quo sarebbe costituito esclusivamente dalla legittimità, o meno, dell'ordinanza di ingiunzione succitata, che andrebbe stabilita sulla base della verifica dei soli eventuali vizi del procedimento che si conclude con l'applicazione di detta sanzione accessoria. Per converso, non potrebbero trovare ingresso in tale giudizio i vizi relativi al verbale di accertamento e, quindi, la legittimità, o meno, dell'installazione dei cartelloni in questione, dipendente dalla sussistenza, oppure no, della relativa autorizzazione, prevista dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 4.

1.2. La doglianza è infondata.

1.2.1. Dall'esame della sentenza di appello e di quella di primo grado, allegata al ricorso, si evince, invero, in maniera inequivocabile, che l'opposizione della (Soggetto 1) s.r.l. era stata proposta allegando proprio che "gli impianti pubblicitari in questione fossero regolari ed oggetto della procedura di riordino" (p. 2 della decisione di primo grado e di quella di appello) e che, pertanto, non sarebbe stato applicabile il disposto del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 13 quater, posto a fondamento dell'ingiunzione. La decisione di prime cure, confermata sul punto da quella di appello, stabiliva - per contro - "essere pacifico che la (Soggetto 1) s.r.l. non fosse titolare di autorizzazione dei quattro impianti ne' titolare di concessione" (p. 4 della sentenza di primo grado). Se ne deve inferire che, contrariamente all'assunto della ricorrente, il carattere abusivo dell'installazione in oggetto - costituente, del resto, il presupposto per l'applicazione delle sanzioni accessorie di cui all'art. 23, commi 13 bis e 13 quater cit., oltre alla sanzione pecuniaria principale, sancita dal comma 11 medesima disposizione - ha formato oggetto del presente giudizio nei gradi di merito.

1.2.2. Ne' coglie nel segno il richiamo operato dall'istante a Cass. 461/2006 e 18061/2007. Le due decisioni di questa Corte si riferiscono, invero, all'ipotesi in cui sia avvenuto il pagamento in misura ridotta della sanzione principale irrogata - che implica l'accettazione della sanzione medesima e, quindi, il riconoscimento, da parte dell'autore della violazione, della propria responsabilità e la rinuncia ad esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale - stabilendo, al riguardo, che tale pagamento non estingue del tutto la pretesa sanzionatoria, residuando una sanzione accessoria non spontaneamente adempiuta (come in caso di ordine di ripristino dei luoghi o di rimozione di opere abusive). Solo nell'ipotesi in questione, pertanto, nel procedimento di opposizione avverso l'ordinanza-ingiunzione prefettizia applicativa della sanzione accessoria non possono essere fatti valere vizi inerenti all'accertamento dei presupposti per l'applicazione della sanzione principale, preclusi dall'accettazione implicita di tale sanzione, ma possono essere dedotti solo i vizi del procedimento che si conclude con l'applicazione della sanzione accessoria e del provvedimento sanzionatorio.

Nel caso concreto, peraltro, non risulta che siffatto pagamento in misura ridotta sia stato operato dalla ricorrente.

1.3. Il motivo in esame va, pertanto, disatteso.

2. Con il secondo ed il quarto motivo di ricorso la (Soggetto 1) s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 13 quater nonché l'omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis).

2.1. L'istante lamenta che la Corte territoriale abbia immotivatamente ritenuto non necessaria, nel procedimento di rimozione degli impianti di cui al D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 13 quater, la notifica dell'ordine di rimozione e l'instaurazione di un contraddittorio con l'autore della violazione, mediante previa notifica di una diffida ad adempiere. Di più, ad avviso della deducente, difetterebbe, nella specie, il presupposto della pericolosità delle installazioni, al quale l'art. 23, comma 13 quater ancora la possibilità di ordinare la rimozione degli impianti abusivi.

2.2. Le censure sono infondate.

2.2.1. In tema di abusiva installazione di cartelloni ed altri mezzi pubblicitari costituenti fonte di pericolo o di disordine del sistema stradale, invero, il D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 23, commi 13 bis e 13 quater, (e successive modifiche), nell'attribuire agli enti proprietari delle strade o al concessionario il potere-dovere della loro rimozione, distingue a seconda che gli immobili su cui essi insistano siano di proprietà privata o pubblica (demaniale o rientrante nel patrimonio dei proprietari delle strade). Nella prima ipotesi, l'ente deve instaurare un contraddittorio con l'autore della violazione e con il proprietario dell'area, ove risulti collocato il cartellone, diffidandolo alla sua rimozione entro dieci giorni dalla relativa notifica, e, in mancanza, può asportarlo in danno dei responsabili con recupero delle spese sostenute tramite le normali azioni civili. Nella seconda ipotesi invece - che è quella ricorrente nel caso di specie -, l'ente deve eseguire "senza indugio" la rimozione del cartellone e, per il recupero delle spese sopportate, deve trasmetterne la nota al prefetto, che ha il dovere di emettere ordinanza ingiunzione di pagamento (Cass. 10640/2015).

2.2.2. Ne discende che del tutto correttamente la Corte di merito ha, nel caso concreto, ritenuto che l'ente pubblico non dovesse instaurare un contraddittorio con l'autore della violazione, costituendo la rimozione degli impianti installati senza autorizzazione su suolo di proprietà pubblica un atto dovuto, da compiere "senza indugio".

Ne’ può dubitarsi del fatto che tale ipotesi di rimozione - fondata sul carattere abusivo dei manufatti in questione - sia alternativa a quella, invocata dalla deducente, dell'installazione pericolosa per la circolazione, prevista dall'art. 23 cit., medesimo comma 13 quater come si evince - in maniera inequivoca - dalla disgiuntiva "o" adoperata dalla norma.

2.3. Le doglianze vanno, di conseguenza, rigettate.

3. Con il terzo motivo di ricorso la (Soggetto 1) s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 6, e delle Delib. Consiglio Comunale n. 289 del 1994 e Delib. n. 254 del 1995, nonché l'omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis).

3.1. Avrebbe errato la Corte territoriale, a parere della ricorrente, nel ritenere - peraltro con motivazione del tutto inadeguata - che la pendenza della procedura di riordino, nel territorio comunale, non determini il diritto di mantenere l'installazione degli impianti abusivi, ma solo la sospensione dell'applicazione delle sanzioni amministrative. Il giudice del gravame non avrebbe, invero, tenuto conto del fatto che il Comune di (Omissis), avvalendosi della deroga D.Lgs. n. 285 del 1992, ex art. 23, commi 4 e 6, aveva previsto che gli impianti installati all'interno del centro abitato dovessero essere soggetti solo alle norme del regolamento comunale adottato con la Delib. Consiglio Comunale n. 289 del 1994 e costituente oggetto anche della successiva Delib. Consiglio Comunale n. 254 del 1995, che aveva previsto "di derogare alle norme relative alle distanze minime per il posizionamento dei cartelli e degli altri mezzi pubblicitari nelle esigenze della sicurezza della circolazione stradale" limitatamente "alle strade interne alla zona abitata del Comune di (Omissis)". Se ne dovrebbe inferire, ad avviso della deducente, che il regime delle rimozioni di cui all'art. 23, comma 13 quater decreto cit. non potrebbe trovare applicazione nel caso concreto.

3.2. Senonché va, per contro, rilevato che il disposto del comma 6 della disposizione succitata non introduce deroga alcuna al comma 4 della stessa norma, che prevede "in ogni caso" la necessità dell'autorizzazione per l'installazione di impianti pubblicitari sulle strade pubbliche, ed al comma 13 quater che sancisce, in mancanza, l'immediata rimozione del manufatto. Il D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 6 si limita, invero, a stabilire che "Nell'interno dei centri abitati, nel rispetto di quanto previsto dal comma 1, i comuni hanno la facoltà di concedere deroghe alle norme relative alle distanze minime per il posizionamento dei cartelli e degli altri mezzi pubblicitari, nel rispetto delle esigenze di sicurezza della circolazione stradale".

La deroga riguarda, pertanto, com'è del tutto evidente, soltanto le norme relative alle distanze minime - ed a tali disposizioni si riferisce, appunto, la Delib. n. 254 del 1995, trascritta nel ricorso (p. 46) - senza investire in alcun modo la necessità dell'apposita autorizzazione per l'installazione degli impianti pubblicitari.

3.3. Il mezzo è, pertanto, infondato e va disatteso.

4. Con il quinto motivo di ricorso la (Soggetto 1) s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 204 nonché l'omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis).

4.1. Lamenta la ricorrente che la Corte di Appello abbia immotivatamente ritenuto valida l'ordinanza ingiunzione, sebbene sottoscritta da un funzionario delegato dal prefetto, titolare del potere di firma, in difetto di prova circa la delega attribuita al funzionario medesimo.

4.2. La censura è infondata.

4.2.1. Questa Corte ha, invero, già avuto modo di chiarire che, in tema di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, perfino l'indecifrabilità della firma apposta in calce all'ordinanza ingiunzione non ne comporta l'illegittimità, qualora, essendo la sottoscrizione riferita nello stesso atto al titolare dell'ufficio competente ad emetterlo (o ad un suo delegato), risultano oggettivamente certi l'autore del segno grafico e la sua qualità di organo della persona giuridica pubblica, posto che in tal caso sono rese possibili l'identificazione del soggetto indicato come autore dell'atto e l'individuazione della provenienza dall'organo cui è attribuita la competenza, a meno che non venga dimostrata da colui che l'allega la non autenticità della sottoscrizione (Cass. 20686/2005). Quanto al preteso difetto di delega, va osservato che l'opponente ad ordinanza-ingiunzione di pagamento di somme a titolo di sanzione amministrativa, il quale ne deduca l'illegittimità per insussistenza della delega di firma in capo al funzionario che, in sostituzione del prefetto o del vice-prefetto vicario, ha emesso il provvedimento, ha l'onere di provare detto fatto negativo. Ne consegue che, nel caso in cui non riesca a procurarsi la pertinente relativa attestazione da parte dell'Amministrazione, è tenuto comunque a sollecitare il giudice ad acquisire informazioni ex art. 213 c.p.c., ovvero ad avvalersi dei poteri istruttori di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 23, comma 6, presso l'amministrazione medesima, la quale non può esimersi dalla relativa risposta. Ne consegue ulteriormente che, se l'opponente rimanga del tutto inerte processualmente, la presunzione di legittimità che assiste il provvedimento sanzionatorio non può reputarsi superata (Cass. 11283/2010).

4.2.2. Nessuna iniziativa istruttoria di tal fatta risulta avere intrapreso la deducente, in relazione alla dedotta mancanza di delega, per il che la doglianza proposta, al riguardo, non può che essere rigettata.

5. Con il sesto, settimo ed ottavo motivo di ricorso, la (Soggetto 1) Advertising s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2700 c.c., nonché l'omessa e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis).

5.1. Avrebbe errato la Corte territoriale nel ritenere comprovata peraltro con motivazione del tutto incongrua - la pretesa creditoria azionata dall'amministrazione con l'ordinanza ingiunzione, sul presupposto che la quantificazione delle spese effettuata nella nota richiamata dal suddetto provvedimento trovasse fondamento nello stesso atto amministrativo in questione, in quanto facente fede fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., e che l'eccezione di incongruità di tali spese fosse stata proposta del tutto genericamente dall'opponente. L'ordinanza ingiunzione del prefetto, a parere della ricorrente, non potrebbe - contrariamente all'assunto della Corte - rivestire, invero, siffatta natura di atto fidefacente, in relazione a spese relative ad attività (rimozione dei cartelloni e consegna del materiale al magazzino) compiute da un ente diverso (il Comune) e, quindi, non eseguite alla presenza del pubblico ufficiale emittente l'ordinanza. L'eccezione sollevata dalla (Soggetto 1) s.r.l., poi, men che generica come ritenuto dal giudice di seconde cure, sarebbe, per contro, fondata sull'incongruenza della quantificazione, in misura diversa, della rimozione dei singoli cartelloni, benché di dimensioni identiche. E, d'altro canto, l'onere di provare la fondatezza della pretesa azionata con l'ordinanza ingiunzione, a fronte di una qualsiasi eccezione da parte dell'opponente, incomberebbe sull'amministrazione opposta.

5.2. Le doglianze sono infondate.

5.2.1. Va osservato, infatti, che la pretesa creditoria dell'amministrazione trova fondamento, nella specie, nel disposto del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 23, comma 13 quater, che, per il recupero delle spese sopportate per la rimozione degli impianti abusivi collocati sulla proprietà pubblica, prevede che l'autorità che effettua la rimozione deve trasmetterne la nota al prefetto, il quale ha il dovere di emettere ordinanza ingiunzione di pagamento sulla base di detta nota (Cass. 10640/2015). Ne' può dubitarsi del fatto che, in tema di opposizione a sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, le risultanze dell'ordinanza ingiunzione siano assistite da fede privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c. (Cass. 2817/2006), con la conseguenza che la quantificazione delle spese in questione, risultante dalla suddetta nota, in quanto riprodotta nell'ordinanza ingiunzione, deve ritenersi assistita dalla fede privilegiata attribuita agli atti pubblici dall'art. 2700 c.c..

5.2.2. Per quanto concerne, poi, l'eccezione di incongruità - pur sempre possibile in relazione alle singole voci di spesa - deve rilevarsi che la censura difetta di autosufficienza, non avendo la deducente riprodotto, ne' allegato al ricorso (ai sensi dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c.), l'ordinanza ingiunzione con la trascrizione della notula in questione, al fine consentire alla Corte di verificare il fondamento della dedotta ingiustificata quantificazione delle spese di rimozione in misura diversa per manufatti identici.

5.3. Le censure vanno, pertanto, rigettate.

6. Con il nono motivo di ricorso, la (Soggetto 1) s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., nonché l'omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

6.1. L'istante contesta l'impugnata sentenza in relazione alle spese del giudizio, a suo dire liquidate immotivatamente in eccesso rispetto ai valori massimi previsti nelle tariffe professionali.

6.2. Senonché va osservato, in proposito, che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, la liquidazione delle spese processuali può essere censurata solo attraverso la specificazione delle voci in ordine alle quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima, senza la puntuale esposizione delle singole voci in concreto liquidate dal giudice, è eccessivamente generico e rende il ricorso inammissibile (cfr. Cass. 1382/2003; 2862/2005; 20808/2014).

6.2. La doglianza è, pertanto, inammissibile.

7. Il ricorso proposto dalla (Soggetto 1) s.r.l. deve essere, di conseguenza, integralmente rigettato.

8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione;

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida, per ciascuno dei resistenti, in Euro 2.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 settembre 2016.

 

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